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Lee Levi e il cinema: abitare storie, vivere verità

Autore: Serena Trivelloni15/12/2025 13:32

Si muove tra mondi diversi con un’intensità silenziosa, attraversando paesi, lingue e paesaggi emotivi. Cresciuta tra la Danimarca, Cambridge e Los Angeles, il suo percorso ha dato forma a un’attrice profondamente sensibile alla trasformazione, alla presenza e alla verità.

Il cinema italiano è diventato la sua casa artistica, offrendole non solo ruoli, ma un modo di vivere e di raccontare storie radicato nell’autenticità e nella connessione umana. Dalla bellezza aspra della Sicilia alle narrazioni intime guidate dai personaggi, le sue interpretazioni restituiscono una sensibilità che sembra vissuta più che interpretata.

Attratta da donne complesse, in continua evoluzione, e senza timore della profondità emotiva, affronta ogni ruolo come un’immersione: nella cultura, nell’ambiente e in quegli spazi fragili in cui l’identità prende forma. In questa conversazione, l’attrice Lee Levi riflette sul suo percorso nel cinema, sui luoghi che l’hanno formata e sui ruoli che continuano a metterla alla prova e a ridefinirla come artista.

Lee, hai lavorato in diverse produzioni italiane, tra cui Gli anni del padre, diretto da Stefano Veneruso, e Sicilian Holiday, diretto da Michela Scolari. Cosa ti ha offerto l’Italia dal punto di vista artistico e personale, e in che modo ha influenzato il tuo approccio a questi ruoli?

L’Italia mi ha dato un profondo senso di radicamento artistico. C’è un’onestà emotiva nel racconto italiano che è istintiva, più che intellettuale. Ho amato lavorare in Italia e, sinceramente, è il mio luogo preferito in cui lavorare. Amo gli italiani per il loro forte senso del lavoro. Ho imparato moltissimo lavorando con loro ed è stato il mio vero trampolino di lancio nell’industria. Inoltre, li sento molto aperti verso i nuovi attori e desiderosi di dare a tutti una possibilità, ed è una sensazione bellissima.

A livello personale, l’Italia mi ha rallentata nel modo migliore possibile. Mi ha ricordato che vita e arte sono inseparabili e che un personaggio non è definito solo dal dialogo, ma anche dall’ambiente, dai rituali e dalla connessione umana. Questo ha influenzato profondamente il mio modo di prepararmi ai ruoli: non mi immergo solo nel copione, ma anche nella cultura che lo circonda. Lì sento un altro tipo di concentrazione. Soprattutto nel mio ultimo film, Gli anni del padre, l’intero contesto, l’ambiente e, naturalmente, il mio straordinario regista mi hanno regalato una grande sensazione di calma e libertà creativa.

Sicilian Holiday ti ha portata nel cuore della Sicilia, in particolare nella città di Sciacca. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza, come attrice e come persona, e ci sono momenti dal set che porti ancora con te?

Il periodo trascorso in Sicilia è stato il momento in cui ho davvero compreso quanto amo l’Italia. Durante quel soggiorno ho sentito una connessione ancora più profonda con il paese, anche se ci ero già stata molte volte in vacanza e avevo già lavorato lì con il film American Night. Ma la Sicilia è stata diversa.

Sciacca, in particolare, possiede una bellezza cruda: il mare, la luce, la storia. Come attrice, mi ha spogliata di tutto. Non potevo nascondermi dietro la tecnica; l’ambiente pretendeva verità, perché c’è qualcosa di profondamente autentico e reale in quel luogo.

Come persona, mi ha ricordato l’importanza delle radici e della comunità. Gli abitanti del posto ci hanno accolti nelle loro vite, non solo come troupe. Sembrava di far parte di una grande famiglia. Alcuni dei miei ricordi più forti non sono nemmeno legati alle riprese, ma ai pasti condivisi, alle conversazioni, al semplice stare insieme. È stata un’esperienza che ha cambiato il mio modo di intendere la presenza, e che porto con me anche oltre il cinema e il set.

Il tuo background attraversa la Danimarca, Cambridge e Los Angeles. Guardando ai tuoi anni di formazione, cosa ti ha portata ad abbracciare una gamma così ampia di ruoli, e c’è un filo che lega la tua storia personale ai personaggi che scegli oggi?

Crescere tra culture diverse mi ha insegnato ad adattarmi molto presto. La Danimarca mi ha dato un senso di concretezza e semplicità; Cambridge ha affinato la mia creatività e mi ha insegnato la disciplina a un altro livello; Los Angeles, invece, mi ha esposta alla scala e all’ambizione dell’industria. Mi ha dato quella che si dice una “pelle dura”. È lì che ho davvero capito quanto questo lavoro sia difficile e quanto sia importante restare impegnata senza perdere me stessa.

Se c’è un filo conduttore nei personaggi verso cui mi sento attratta, è la trasformazione. Credo di avere una forte capacità di trasformarmi, grazie alle esperienze della mia vita e al mio passato. Mi interessano ruoli che esistono tra mondi diversi, proprio come il mio percorso personale.

Hai preso parte a produzioni internazionali come American Night e Hood, oltre a film italiani. Come descriveresti le differenze e le somiglianze tra il lavorare in Italia e all’estero, e cosa del cinema italiano risuona di più con te?

Non ho ancora lavorato negli Stati Uniti e gran parte del mio lavoro cinematografico finora si è svolto in Italia. Il mio primo grande ruolo da protagonista è arrivato l’anno scorso in Danimarca, nel film Hood, un progetto molto impegnativo, perché ero presente praticamente in ogni scena e avevamo solo cinque settimane per girare l’intero film. Attualmente è disponibile su piattaforme di streaming come Apple TV.

La differenza principale, per me, è il ritmo. Le produzioni internazionali, soprattutto in Danimarca, tendono a essere molto strutturate e veloci, il che può essere estremamente stimolante. Il cinema italiano, invece, spesso lascia più spazio all’evoluzione naturale delle emozioni, concedendo più tempo, ed è qualcosa che amo profondamente. In realtà amo entrambi gli approcci, perché lavorare in ambienti diversi mi permette di imparare cose nuove.

Hai recentemente concluso le riprese di Gli anni del padre, diretto da Stefano Veneruso, nipote del leggendario Massimo Troisi. Com’è stato collaborare con lui e come descriveresti il rapporto costruito sul set?

Lavorare con Stefano è stata un’esperienza incredibile. Ha un profondo rispetto per l’eredità del racconto cinematografico, ma allo stesso tempo è estremamente presente e aperto sul set. Si percepisce chiaramente che il cinema è parte del suo DNA ed è un vero artista.

Ho sentito una connessione professionale con lui fin dal nostro primo incontro su Zoom, durante il quale abbiamo scoperto di avere moltissime cose in comune. È molto generoso sul set e ti permette di esplorare e di essere creativo. Ha un grande rispetto per gli attori, e questo ti porta naturalmente a voler ricambiare con la stessa intensità.

Guardando al futuro, su quali progetti ti stai concentrando e ci sono ruoli o collaborazioni, in Italia o altrove, che senti particolarmente allineati con la direzione artistica che desideri seguire?

In questo momento mi sto concentrando su progetti che mi mettano alla prova dal punto di vista emotivo e creativo. Sono attratta da personaggi complessi: donne stratificate, imperfette, in continua evoluzione. Nel mio prossimo film interpreterò una donna che soffre di disturbo dissociativo dell’identità. È un progetto molto impegnativo e non vedo l’ora di affrontarlo. Il film è diretto da Brian Sean Tange, un regista danese emergente, e le riprese si svolgeranno a Malta, con un cast internazionale molto forte.

Il prossimo anno girerò anche altri due progetti, uno dei quali è un importante film danese. Parallelamente alla recitazione, continuo a dedicarmi con piacere al mondo della moda e della bellezza, collaborando con brand come Bruuns Bazaar (storico marchio di moda danese), ZO Skin Health Denmark e OPATRA London, di cui sono volto e ambassador da diversi anni.

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